AssoAmbiente

Circolari

2023/105/SA-LAV/MI

Lo scorso 31 marzo la Corte di Cassazione ha pubblicato la sentenza in oggetto, di particolare rilievo per il comparto, sia per il tema oggetto del contenzioso, sia perché riguarda direttamente una delle più importanti aziende italiane di raccolta rifiuti.

La vertenza nasce a seguito di licenziamento per superamento del periodo di comporto, in applicazione delle disposizioni contrattuali di cui al CCNL Servizi Ambientali “Federambiente” (oggi “Utilitalia”) e conseguente dichiarazione in sede giudiziale di nullità del licenziamento stesso, confermata in sede di appello, e relativa reintegrazione nel posto di lavoro.

Il lavoratore, addetto a mansioni di spazzino, era portatore di handicap ai sensi dell’articolo 3, comma 1 della legge n. 104/92 con capacità lavorativa ridotta del 75%.

Nei due giudizi di merito, le motivazioni alla base dell’accoglimento del ricorso del lavoratore si fondavano principalmente in ordine alla ritenuta discriminazione operata dall’azienda, avendo adottato il provvedimento del licenziamento per superamento del periodo di comporto contrattuale, senza però tenere conto, distintamente, delle assenze riconducibili a malattia “ordinaria” e quelle riconducibili a patologie correlate alla disabilità, in quanto tali non computabili, secondo i Giudici.

Il ricorso in Corte di Cassazione presentato dall’azienda si è fondato, in sintesi, sulle seguenti argomentazioni:

  • al caso di specie è stata applicata una disciplina contrattuale, equilibrata e atta a garantire al lavoratore un congruo periodo di malattia prima di giungere al recesso per “eccessiva morbilità”, modulato anche sulla base della tipologia di assenza (se richiedente ricovero ospedaliero o se comportante lunghi consecutivi periodi di malattia);
  • nessuna discriminazione è stata attuata nei confronti del lavoratore, e tale non può considerarsi l’applicazione di una previsione contrattuale che punta esclusivamente ad un contemperamento di interessi contrapposti relativi al prolungato stato di inattività del lavoratore;
  • pur applicando una normativa contrattuale che ancora non distingueva tra malattie ordinarie e assenze per patologie correlate alla disabilità (solo con il rinnovo del 10.7.2016 è stata introdotta in quel CCNL una distinzione tra patologie ordinarie e patologie gravi, finalizzata a riconoscere un periodo di comporto diversamente modulato), l’azienda si era fatta parte attiva sollecitando il lavoratore a "far pervenire... osservazioni scritte...” prima del superamento del periodo di conservazione del posto.

Nel motivare la decisione di respingere il ricorso, la Cassazione ha richiamato più volte il concetto di “handicap” e di “disabilità” citando la Direttiva UE n. 2000/78 e le successive applicazioni derivanti da diverse sentenze della Corte di Giustizia Europea.

Giungendo così alla conclusione secondo cui “l'applicazione al lavoratore dell'ordinario periodo di comporto ha …. rappresentato …. discriminazione indiretta”. Ciò perché, rispetto a un lavoratore non disabile, “il lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi di cui alla normativa pertinente” (punto 20 della sentenza).

Ancora, nel precisare che applicare il medesimo periodo di comporto a lavoratori “disabili” e a lavoratori “non disabili” costituisce discriminazione indiretta, la Corte sostiene che ciò non deve necessariamente significare che di fatto al disabile debba essere comunque cponservato il rapporto di lavoro indipendentemente dal numero di assenze; ma deve comunque essere considerato, adottando “mezzi appropriati e necessari”, il rischio “di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità” (punto 23 della sentenza).

Circa il comportamento discriminatorio dell’azienda, la Corte ricorda come spetti al lavoratore “l'onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi”, mentre “il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura”: sussiste infatti in tali casi una "presunzione" di discriminazione indiretta.

È irrilevante infatti l'intento soggettivo dell'autore della presunta discriminazione: la motivazione di parte ricorrente di non essere stata messa a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, perchè i certificati medici delle assenze inoltrati al datore di lavoro non indicavano la specifica malattia a causa dell'assenza, non ha alcuna rilevanza poiché la discriminazione sussiste semplicemente come “conseguenza del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro”.

***

La sentenza, pur recante principi non completamente innovativi in materia di periodo di comporto, introduce concetti tali da generare incertezza nelle modalità con cui poter approcciare casi analoghi, notoriamente piuttosto diffusi nel comparto dei servizi ambientali.

La difficoltà di poter distinguere tra assenze per patologie riconducibili alla disabilità del lavoratore e assenze per altri motivi può generare la quasi impossibilità di poter recedere dal rapporto di lavoro, anche considerando i comportamenti dei lavoratori, che di frequente non rendono edotto il datore di lavoro delle condizioni di salute e/o dei motivi delle assenze, impedendo quindi al datore stesso di poter attuare i necessari “accomodamenti ragionevoli”, ovvero di prolungare di pari misura il periodo di conservazione del posto.

Cordiali saluti.

» 28.04.2023
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