Con sentenza pubblicata il 27 giugno u.s., la Corte di Cassazione si è ancora una volta pronunciata sulla questione relativa alla distinzione tra meri indumenti di lavoro e dispositivi di protezione individuale nel settore della raccolta rifiuti.
Tema che, come noto, implica conseguenze rilevanti in ordine agli obblighi manutentivi a carico delle aziende, ovvero alla corresponsione dell’indennità lavaggio indumenti di cui all’articolo 66, lettera D), del CCNL 6 dicembre 2016.
Articolo 66 del CCNL che opera, come noto, una distinzione tra “Indumenti da lavoro finalizzati alla protezione da rischi per la salute e la sicurezza” (lettera B) e “Indumenti da lavoro finalizzati a preservare gli abiti civili” (lettera C).
Come noto, data l’importanza, l’argomento è stato, diversi anni fa (2009-2010), oggetto di un approfondimento con le aziende associate nell’ambito di uno specifico gruppo di lavoro che ha esaminato una serie di sentenze dei primi anni 2000 relative ad imprese e lavoratori addetti alla raccolta dei rifiuti, riferite anche al CCNL delle imprese pubbliche del comparto.
Dall’analisi operata dal gruppo di lavoro era emersa una situazione eterogenea sul territorio, sia per quanto riguarda le pronunce, sia per quanto riguarda le rivendicazioni sindacali e/o individuali, sia per quanto riguarda, infine, i comportamenti degli organismi sanitari ispettivi.
La pronuncia esprime concetti non del tutto innovativi, tuttavia è particolarmente severa su alcuni punti, tanto da essere stata richiamata anche in articoli su riviste specializzate.
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La Corte di Cassazione è stata chiamata ad esaminare la sentenza della Corte d’Appello con cui era stato escluso il diritto del lavoratore, operatore ecologico autista, al risarcimento del danno da inadempimento all’obbligo datoriale di lavaggio e manutenzione degli indumenti da lavoro.
La Corte di merito aveva raggiunto tale conclusione nel presupposto che gli indumenti (maglie, pantaloni, giubbotti) forniti al dipendente non costituissero dispositivi antinfortunistici, in quanto privi di specifiche caratteristiche tecniche protettive; ciò in quanto il documento aziendale di valutazione rischi non li aveva qualificati come tali.
Il dipendente impugnava quindi la sentenza e la Suprema Corte, adita dal dipendente, nel riformare la richiamata pronuncia ha adottato un approccio pragmatico, svincolato da aspetti formalistici.
I motivi del ricorso del lavoratore, ritenuti fondati dalla Corte, sono i seguenti:
Partendo dalla definizione normativa dei “dispositivi di protezione individuale” di cui all’articolo 74 del d. lgs. n. 81/2008, la Corte ne amplia la portata interpretativa, rispetto a concetti come “qualsiasi attrezzatura” ovvero “ogni complemento accessorio”; rifacendosi peraltro all’elenco delle attrezzature di protezione individuale di cui all’allegato VIII al d. lgs. n. 81/2008, elenco definito “indicativo e non esauriente”.
La Corte di Cassazione ha quindi precisato, in direzione opposta alla pronuncia d’appello, l’irrilevanza della previsione o meno dei dispositivi quali D.P.I. nell’ambito del documento di valutazione rischi, trattandosi di elaborato che, sia pur redatto con tutte le responsabilità di legge, è comunque oggetto di unilaterali valutazioni del datore di lavoro medesimo.
In sostanza, il DPI assume tale natura in ragione delle sue concrete ed effettive finalità di protezione dei lavoratori dai rischi per la salute e la sicurezza esistenti nelle lavorazioni svolte, indipendentemente dalla qualificazione operata all’interno del documento di valutazione rischi o dal contratto collettivo applicato.
Sul tema, la Corte ha anche richiamato i precedenti in materia, ribadendo come per gli operatori ecologici abbia, la Corte stessa, “sempre affermato l’obbligo datoriale di manutenzione e lavaggio degli indumenti da lavoro sul presupposto, fattuale e logico, della qualificazione degli indumenti medesimi come dispositivi di protezione individuale” (pagina 7 della sentenza, punto 27).
In tale premessa, la Corte ha così ritenuto che gli indumenti forniti dal datore di lavoro ad un operatore ecologico siano da configurarsi quali dispositivi di protezione individuale, in quanto idonei, anche solo in maniera minima, a ridurre i rischi legati allo svolgimento dell’attività lavorativa, quali il contatto con sostanze infettive e nocive.
Con la conseguenza, ben nota, in capo al datore di lavoro, non solo di fornitura dei DPI, ma altresì di lavaggio e manutenzione degli stessi.
La Corte d’Appello riesaminerà quindi la vicenda, sulla base delle indicazioni di principio fornite dalla sentenza n. 17354/2019, riferendo quindi la nozione di DPI, ai sensi di legge, come “qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l’articolo 2087 del codice civile…..suscettibile di interpretazione estensiva” (pagina 10 della sentenza, punto 37).
Derivandone quindi la conseguenza dell’obbligo di fornitura degli indumenti e della relativa garanzia di idoneità “a prevenire l’insorgenza e il diffondersi di infezioni provvedendo al relativo lavaggio, indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza”.