Si segnala la recente sentenza della Corte Suprema, in ordine a un tema di estrema delicatezza quale è quello della prescrizione dei crediti retributivi, o meglio della decorrenza del relativo termine.
Ciò con particolare riguardo ad un noto contenzioso emerso negli ultimi anni, con esiti contraddittori, a seguito delle modifiche legislative che hanno portato, prima con la “Riforma Fornero” (legge n. 92/2012) e poi con il provvedimento denominato “Jobs Act” (d. lgs. n. 23/2015) a circoscrivere a casi tassativi le fattispecie in cui la proclamazione di illegittimità di un licenziamento comporta la reintegra del lavoratore.
E’ la stessa Corte di Cassazione, nella pronuncia in esame, a ricordare l’evoluzione della materia attraverso gli interventi della Corte Costituzionale che, fin dagli anni ’60, sancì l’interruzione del decorso della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro in considerazione della “soggezione psicologica” del lavoratore, portato a rinunciare all’esercizio dei propri diritti al fine di evitare eventuali conseguenze negative sul rapporto in essere.
Principio poi modificato dalla stessa Corte Costituzionale (sentenza n. 174/1972) dopo l’entrata in vigore del meccanismo della “reintegra”, e del conseguente risarcimento, introdotto dall’articolo 18 della legge n. 300/1970 per i casi di licenziamento dichiarato illegittimo (come noto per i datori di lavoro aventi più di quindici dipendenti), poiché tale stringente tutela legislativa superava ogni possibile timore del lavoratore nel rivendicare quanto ritenuto di propria spettanza.
Con le riforme sopra citate, invece, parte della giurisprudenza e della dottrina hanno sostenuto la tesi per cui la reintegra nel posto di lavoro, essendo ormai relegata a situazioni tassative ed eccezionali, non costituisse più motivo di stabilità del rapporto di lavoro, perdendo così quell’efficacia “dissuasiva” per i datori di lavoro di licenziare, per ragioni ritorsive, il lavoratore che avesse avanzato rivendicazioni retributive in costanza di rapporto.
Tesi di per sé assai discutibile, poiché, tra i vari argomenti si consideri che proprio il licenziamento ritorsivo rappresenta una fattispecie di nullità espressamente indicata dalla legge, con le conseguenze massime in termini di stabilità del rapporto (cfr. articolo 18, comma 1, legge n. 300/70 e articolo 2, comma 1, d. lgs. n. 23/2015).
Ed effettivamente negli anni successivi all’entrata in vigore della legge n. 92/2012 (e quindi del nuovo articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori) le opposte tesi si fronteggiarono sia nelle aule dei Tribunali e delle Corti d’Appello, con alterne vicende, sia in dottrina.
Se nei Tribunali di Roma, Napoli e Torino (e altri Tribunali minori) la tesi della decorrenza anche in costanza di rapporto sembrava essere maggioritaria soprattutto negli ultimi mesi, differenti erano stati gli orientamenti del Tribunale di Bologna, Brescia e Milano, con contrasti in tale ultimo caso anche all’interno della stessa Corte d’Appello (sentenza n. 89/2020 e sentenza n. 841/2021, con conclusioni opposte).
Alla luce di tale quadro giurisprudenziale, anche l’Ispettorato del Lavoro, in una nota del 23 gennaio 2020 (n. 595), aveva ritenuto opportuno muoversi con cautela, dando indicazioni ai propri ispettori nell’ambito delle attività di vigilanza e accertamenti di “considerare solo i crediti da lavoro il cui termine quinquennale di prescrizione, decorrente dal primo giorno utile per far valere il diritto di credito anche in costanza di rapporto di lavoro, non sia ancora maturato”.
Tuttavia, a seguito della sentenza della Corte di Cassazione del 6 settembre scorso, lo stesso Ispettorato ha emanato una nuova nota (la n. 1959 del 30 settembre scorso) aderendo esplicitamente a quanto dalla stessa sostenuto, ovvero dando indicazioni agli ispettori di considerare che “per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92/2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli articoli 2948, n. 4 e n. 2935 del codice civile, dalla cessazione del rapporto di lavoro” (vedi nota in Allegato 2, pagina 2).
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Per tornare alla sentenza n. 26246, le conclusioni si possono sintetizzare nell’affermazione assoluta per cui, dopo le riforme del 2012 e del 2015, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato “non è assistito da un regime di stabilità”, mancando dei presupposti di “predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione di una loro tutela adeguata” (diversamente quindi da quanto prima garantito con l’articolo 18 della legge n. 300/1970 applicabile a tutte le fattispecie di cessazione della prestazione dichiarata illegittima).
Pertanto, secondo la Corte, per tutti i diritti non già prescritti nel momento di entrata in vigore della legge n. 92/2012, “il termine di prescrizione decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
Non sfuggiranno le conseguenze, anche di natura organizzativa, per le aziende: l’esposizione a potenziali controversie che possono riguardare crediti di lavoro sorti sin dal luglio 2007 determina la necessità di adottare modelli di conservazione di documenti per tempi molto più lunghi che in passato, oltre a prevedere periodici controlli di regolarità dei pagamenti effettuati, tentando con tutti gli accorgimenti possibili di ridurre quanto più possibile i margini temporali di eventuali rivendicazioni.