AssoAmbiente

Circolari

2025/330/SAEC-GIU/NA

La terza Sezione penale della Corte di Cassazione penale, con la sentenza 27669/2025 è espressa in materia di responsabilità amministrativa degli enti per reati ambientali. La Sentenza riguarda il caso della gestione di una cava e all'accumulo di materiali che, secondo l'accusa, aveva trasformato l'area in una discarica abusiva e ribadisce principi consolidati sul reato di discarica non autorizzata, sulla sua natura permanente e sull'estensione al Sistema 231 delle conseguenze patrimoniali derivanti dalla confisca del profitto.

La vicenda nasce da un procedimento penale instaurato nei confronti di una società concessionaria di un'attività estrattiva. Le autorità di controllo avevano accertato che, in un lotto della cava, erano stati depositati consistenti quantitativi di materiali inerti e residui di lavorazione. Tale accumulo avveniva in violazione delle prescrizioni contenute nel progetto autorizzato, che imponeva il progressivo ripristino ambientale dei singoli lotti una volta esaurita l'attività di escavazione. La mancata osservanza di queste prescrizioni determinava, a giudizio dell'accusa e poi dei giudici di merito, la trasformazione dell'area.

Tre sono gli aspetti principali su cui la Suprema corte si sofferma: 

  • conferma la correttezza della quantificazione del vantaggio economico dell’ente effettuata in sede di appello, calcolato sulla base del costo di smaltimento evitato e non sul valore di mercato, con inclusione dell’IVA al 10%, trattandosi di “stima lorda, senza uso di criteri aziendalistici”.
  • ribadisce che il reato di gestione non autorizzata di rifiuti si configura “in presenza di un accumulo di rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta, in una determinata area, trasformata di fatto in deposito o ricettacolo con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli degli stessi e dello spazio occupato”;
  • affronta la questione della nomina del difensore dell’ente da parte del legale rappresentante, affermando che l’art. 39, comma 1, del D.lgs. n. 231/2001 “deve essere applicato secondo un criterio di stretta interpretazione, nel senso, conforme al dettato normativo, secondo cui il divieto di rappresentare l’ente postula che la qualità di imputato sia rivestita dal legale rappresentante al momento del compimento dell’atto nell’interesse dell’ente”.

Si rinvia per maggiori approfondimenti al testo della Sentenza in allegato alla presente.

» 15.09.2025
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