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Circolari

204/2019/MI

Si segnala la sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, Sezione Penale, il 22 luglio u.s. (n. 32507/2019), interessante poiché, pur confermando principi consolidati in materia di responsabilità del datore di lavoro, riguarda un addetto alla raccolta rifiuti, purtroppo deceduto sul lavoro a seguito di un incidente occorso nell’esercizio delle sue mansioni, in palese violazione tuttavia di elementari regole di condotta.

Nelle sentenza di primo grado e di appello il datore di lavoro, in qualità di legale rappresentante dell’azienda, era stato condannato per omicidio colposo, reo di non aver adottato le necessarie misure per evitare infortuni sul lavoro, e, più specificatamente, per aver omesso di valutare adeguatamente i rischi cui erano esposti i lavoratori e non fornendo a questi ultimi un'adeguata formazione e informazione in rapporto alla sicurezza.

Secondo le due decisioni, le condotte omissive del datore di lavoro si erano rivelate causa determinante del decesso dell'operatore ecologico, il quale, nel corso dell’ordinario giro di raccolta, invece di salire in cabina, in attesa della successiva fermata, utilizzava quale postazione di lavoro la “staffa ad U” posta alla base del sistema di ancoraggio dei contenitori; tale condotta portò ad una caduta con il veicolo in movimento ed al decesso del lavoratore a seguito delle gravi ferite riportate.

Il datore di lavoro è quindi ricorso in Cassazione, fondando la propria difesa sui seguenti motivi principali:

  • il lavoratore deceduto era addetto alla raccolta dei rifiuti da dieci anni, a seguito di successivi passaggi di appalto, ed era quindi esperto e ben consapevole della pericolosità della condotta fatale posta in essere;
  • i colleghi stessi con cui lavorava, ed in particolare il caposquadra, avevano spesso ammonito il lavoratore a desistere dalla condotta, palesemente pericolosa;
  • formazione ed informazione dei lavoratori sui principali rischi, ivi compresi quelli relativi all’improprio utilizzo dei mezzi di trasporto, erano state effettuate in misura sufficiente quantomeno a prevenire condotte abnormi come quella del caso in questione.

Ad esito di un percorso logico diverso da quello dei precedenti giudizi, la Corte di Cassazione ha quindi accolto il ricorso.

La sentenza conferma quanto oggetto di consolidati orientamenti, laddove sostiene che il datore di lavoro ha sempre l’onere di evitare che si verifichino “eventi lesivi dell'incolumità fisica intrinsecamente connaturati all'esercizio di talune attività lavorative”, anche nell'ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve essere comunque protetta con appropriate cautele.

In pratica, è necessario tendere ad evitare quanto più possibile, adottando le opportune contromisure, quelli che possono essere errori o condotte improprie, anche se imputabili a iniziative unilaterali del lavoratore.

Tuttavia, la Corte ha sottolineato come la condotta del caso in esame, pur rientrando pienamente nell’esercizio delle mansioni del lavoratore, e quindi nelle ordinarie e quotidiane modalità della prestazione lavorativa, era completamente al di fuori di ogni possibile prevenzione e capacità del datore di lavoro di poterla, eventualmente, impedire.

Ne è seguito un lungo ed articolato ragionamento dei Giudici di legittimità circa il nesso causale tra la condotta omissiva del datore di lavoro e il verificarsi dell’evento, ovvero, in sintesi, quanto, e se, le eventuali omissioni abbiano determinato nel lavoratore l’inconsapevolezza della pericolosità della condotta o se, al contrario, l’evento si sia rivelato praticamente “inevitabile”, considerate le circostanze concrete.

Il lavoratore, infatti, ha accertato la Corte, possedeva pacificamente “le cognizioni necessarie per rendersi conto del rischio che correva mediante la condotta, incontrovertibilmente imprudente, da lui posta in essere”.

In tale contesto, nella motivazione della sentenza è riportato che, indipendentemente dalla formazione effettuata o meno, qualora la pericolosità di una certa manovra sia immediatamente percepibile non solo da parte di un operatore esperto ma anche di un lavoratore alle prime armi e perfino da un individuo qualunque, l'evento si sarebbe verificato lo stesso perché il lavoratore, mosso da ragioni del tutto estranee alla problematica della sicurezza, ha adottato quel comportamento pur rendendosi perfettamente conto della pericolosità immediata, intuitiva e di incontrovertibile evidenza. 

Ancora, la Corte ha riconosciuto le peculiarità dell’attività di raccolta rifiuti, sottolineando come non sia imputabile una mancata vigilanza sul corretto uso dei veicoli adibiti alla raccolta dei rifiuti (i cui rischi erano contemplati nel Documento di valutazione, acquisito agli atti), considerando che “l'attività, per sua natura, non si svolge in un unico ambiente o in più ambienti ben individuati, circoscritti e quindi, in modo più o meno agevole, controllabili e sorvegliabili” ma si esplica notoriamente mediante una pluralità di veicoli destinati a circolare continuamente, rendendo quindi impossibile una assidua sorveglianza di tutti i mezzi.

Ancora, l’accertamento in sede giudiziale che la deprecabile condotta del lavoratore fosse ormai una “prassi” non determina automaticamente la presunzione di conoscenza da parte del datore di lavoro: è ormai pacifico in giurisprudenza che l’onere di vigilanza del datore di lavoro nei confronti del personale dipendente non costituisce di per sé prova nè della conoscenza né della conoscibilità, da parte del datore di lavoro stesso, di prassi aziendali, più o meno ricorrenti, contrarie alle disposizioni In materia antinfortunistica.

In conclusione, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata con la formula più ampia, ovvero perché il fatto non costituisce reato.

A richiesta, è disponibile la copia non ufficiale della sentenza.

» 10.09.2019

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