La Corte Costituzionale con la sentenza n. 189, depositata il 7 ottobre 2021, ha stabilito che nell’attuale assetto costituzionale delle competenze sulla gestione dei rifiuti - che rientra nella materia della tutela dell’ambiente - le Regioni non possono delegare ai Comuni le funzioni amministrative ad esse attribuite dallo Stato in base a una scelta allocativa compiuta con il Codice dell’ambiente.
La dichiarazione di incostituzionalità ha colpito, in particolare, l’articolo 6, secondo comma, lettere b) e c) - quest’ultima limitatamente al riferimento alla lettera b) - della legge regionale del Lazio sulla gestione dei rifiuti, per contrasto con l’articolo con 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.
Secondo la Consulta, la Regione Lazio non poteva delegare ai Comuni - come ha fatto con la legge 27/1998 – né:
Più in particolare, due società di autodemolizione di autoveicoli si erano viste rigettare da Roma Capitale la richiesta di autorizzazione ad esercitare l’attività di smaltimento e recupero di rifiuti pericolosi e contro questa decisione avevano proposto ricorso al TAR Lazio in quale, fra le diverse doglianze, ha ritenuto che la questione di legittimità costituzionale meritasse considerazione prioritaria e assorbente.
La Corte ha statuito che “la Regione Lazio, delegando ai Comuni la funzione amministrativa – attinente alla cura del procedimento di autorizzazione alla realizzazione e gestione degli impianti di smaltimento e recupero di rifiuti derivanti dall’autodemolizione e rottamazione di macchinari e apparecchiature deteriorati e obsoleti – ad essa conferita con legge nazionale, ha inciso, senza esservi abilitata da tale fonte normativa, su una competenza istituita dallo Stato nell’esercizio della sua potestà legislativa esclusiva ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.”
La dichiarazione di illegittimità costituzionale – ha precisato la Corte – decorre dal 29 aprile 2006, data di entrata in vigore del Codice dell’ambiente, con il quale i principi della riforma del titolo V della Costituzione - successiva alla normativa censurata - si sono tradotti in una specifica disciplina del riparto delle funzioni amministrative, rendendo attuale la discrasia della distribuzione delle competenze disposta dalla legge regionale censurata.
Come noto, in base al combinato disposto dell'art. 136 Cost. e dell'art. 30 L. 11 marzo 1953 n. 87, la pronuncia d’illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza del Giudice delle leggi, che essa possa più essere comunque applicata ai rapporti giuridici in relazione ai quali risulti rilevante.
A tal proposito ricordiamo che il divieto di applicazione della norma dichiarata illegittima – indirizzato alla generalità dei soggetti preposti all’applicazione del diritto (i giudici e l’amministrazione) ed ai cittadini – si ripercuote e spiega la sua efficacia ovviamente in tutti i casi in cui quella norma può trovare applicazione, vale a dire in processi ancora pendenti ovvero, per i rapporti giuridici ad essa relativi che non hanno ancora raggiunto la fase patologica della lite, in situazioni nelle quali, ad esempio, non è ancora scaduto il termine di prescrizione o decadenza per l’esercizio di un diritto ovvero non è divenuto inoppugnabile un atto amministrativo. I rapporti esauriti, invece, sfuggono alla retroattività delle sentenze di accoglimento perché, con la sola eccezione della materia penale dominata dal principio del favor rei (art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953), restano regolati dalla norma dichiarata invalida. L’individuazione di detti rapporti può in prima approssimazione limitarsi a quelli coperti da sentenze passate in giudicato ed a quelli ormai cristallizzati dal decorso del tempo.
Nel far rinvio alla sentenza, in allegato alla presente, rimaniamo a disposizione per informazioni e aggiornamenti.